Abituarsi alla musica incomprensibile
Ci sono alcuni dischi che non c'entrano con il piacere di ascoltare musica, ma con la decodifica di un codice.
Sono tornato da quel concerto su un treno notturno, negli scompartimenti da sei posti che si fronteggiano, tenevo il rullante del mio batterista sulle gambe, lui era di fronte a me, gli altri quattro passeggeri un po’ sonnecchiavano, un po’ ci guardavano con un misto di diffidenza e compassione. Io, che ero punk ma non ero stronzo, badavo soltanto a non far rumore con la retina del rullante sulle ginocchia ogni volta che il treno sobbalzava.
Una notte in bianco passata a viaggiare per la riviera romagnola a 17 anni non la senti così tanto il giorno dopo, non certo a livello di fatica. La senti perché pensi di aver fatto una cosa divertente che se tutto va male non farai mai più, e se tutto va bene rifarai un po’ più comodo.
Nel frattempo, tra le 7 del mattino, in cui ero riuscito finalmente a stendermi a letto, e le 3 del pomeriggio, mentre tornavo dal pranzo a casa dei nonni, aveva iniziato a piovere senza sosta, di quella pioggia immobile e monocorde come solo a ottobre, quando sembra una sentenza, una parte dell’esistere. Mentre il finestrino dell’auto dei miei genitori imbeveva le luci del traffico fuori come un disegno lasciato sotto l’acqua, ascoltare quel disco dei La Quiete me ne imprimeva il senso nella memoria in un modo che, al tempo, com’è ovvio, non riuscivo a cogliere.
Mi ero imbattuto in La fine non è la fine nell’unico modo in cui poteva farlo un derelitto della mia età alla periferia di Padova nel 2004: leggendo le webzine; Emotional Breakdown soprattutto, Munnezza, Ragepunk. Ne avevo letto pareri entusiasti, e la cosa al momento più incredibile è che ne avevo letto anche in lingue diverse dall’italiano. Strano, per una band di un posto, Forlì, che fino a quel momento nella mia geografia aveva contato meno di zero. Strano per una band che aveva scelto un nome italiano, la lingua italiana, e che però faceva qualcosa che, fino a quel momento, non avevo mai pensato facesse parte del paese in cui vivevo e lottavo per proporre un’idea di musica lontana da qualsiasi riferimento ad esso.
Da lì a quel giorno di ottobre del 2005, in cui con la mia band avevo partecipato a un festival a Rimini che i La Quiete avrebbero avuto l’onere di chiudere con la loro esibizione, avevo atteso di poterli vedere dal vivo, per capire cosa davvero fosse quel genere musicale che mi ostinavo a non voler chiamare “screamo”, perché mi aveva sempre infastidito definire la musica a partire dal comportamento di una delle componenti, la voce.
Ero stanco. Eravamo arrivati a Rimini per pranzo, in questo centro sociale che aveva allestito un impianto all’aperto su un lastricato, in un giardino grande dove distro hardcore e stand di cibo vegano insapore chiudevano un contesto che mi avrebbe fatto sentire a mio agio, anche se diverso. Avevamo suonato a ora di cena noi, ci avevano reso l’onore di metterci dopo le band locali solo perché non locali, non certo perché migliori. Le cose dopo cena si erano fatte più serie, fino ad arrivare al concerto dei La Quiete.
Non saprei se sia corretto chiamarlo concerto. Quando i La Quiete suonano è più una mareggiata. Il pubblico si frange a ondate contro la band che resiste a tentoni come su una zattera, e anche ciò che si riesce a sentire ricorda il risucchio dell’acqua nelle orecchie quando giochi coi cavalloni, e risalendo un’onda che non aspettavi ti coglie alle spalle. Ero stanco, e stavo assistendo a una rivelazione che avevo atteso per mesi, e della quale mi ricordo quasi nulla.
Ma nell’auto di mio padre, in silenzio dopo il pranzo e sotto a quel diluvio, riascoltavo La fine non è la fine e per la prima volta ci cercavo cose diverse.
Ero stanco. Cominciavo a sentire le ore di sonno arretrato, e ad assorbire il diluvio. Mia madre di tanto si girava dal sedile posteriore a guardarmi, in attesa che crollassi per la stanchezza. La vedevo con la coda dell’occhio, mentre gli auricolari mi chiudevano in una stanza e tenevo lo sguardo fisso sullo scroscio del vetro. Non lo so se capisse. A quel tempo, almeno, mi pareva capisse o quantomeno si limitasse a esprimersi su ciò che veramente capiva, e ignorare ciò che sentiva di non comprendere, far finta che non esistesse, fidandosi di me. Cosa puoi pensare di un figlio che a 17 anni prende un treno per andare a suonare a Rimini, in un centro sociale dove servono pasta fredda con le zucchine, e la mattina dopo al pranzo dai nonni ha due occhi pesti, una maglietta nuova troppo stretta con scritto “La Quiete” e l’espressione di chi è tutto fuorché in pace interiore? Non lo so cosa pensasse, in quel momento, mentre sentivo la pioggia lavare via le ultime foglie gialle della mia infanzia fuori tempo massimo.
Quello che a tutt’oggi rimane l’unico vero “disco” dei La Quiete dura venti minuti, un tempo insufficiente per affrontare un cambio di paradigma capendoci qualcosa.
Raid aereo nel paese delle farfalle emerge da un fischio che può voler dire bene e può voler dire male; l’unica cosa che sai è che qualcosa sta per accadere. E accade. Il primo impatto con i La Quiete furono quei sei colpi di rullante ravvicinati, una scarica che emerge dal fischio e che getta in un impasto che assomiglia a una marcia frenetica, accelerata fino all’implosione. Nel momento in cui stanno suonando tutti e cinque, voce inclusa, gli strumenti si annullano a vicenda assorbendosi in un’unica spugna abrasiva. Non è facile, la prima volta, affrontare così, con questo spirito, quella che dovrebbe essere una canzone. L’istinto è lasciar perdere, per mille motivi: il primo, la registrazione, che se non ci capisci un cazzo come a 17 anni, ti sembra che sia una cattiva registrazione. Il secondo è la mancanza di abitudine alla difficoltà. E non è difficoltà intesa come durezza della musica, perché i La Quiete costruiscono la loro personale sfida con chi ascolta su chitarre appena appena spinte, talvolta persino dolci nel modo in cui si intrecciano e lasciano al basso il compito di ruggire. Proprio le chitarre danno vita a quei tratti in cui, d’improvviso, da quel monolite emergono momenti di abbraccio empatico, una ricompensa per essere arrivati a quel punto. Il primo è lo stop di Metempsicosi del fine ultimo: nevrastenica oscillazione fra poli estremi, una canzone che solo a leggere il titolo fa girare i coglioni. Un altro è la discesa su cui si risolve Il destino di un ombrello. Un altro ancora è il sussulto che apre Merce Cunningham; un altro, il più luminoso, è quella chitarra straziante che chiude la title track e il disco intero, quella canzone con quel testo, un testo che ha fondato dieci anni di testi in italiano a seguire.
Come tutti i dischi che ti insegnano qualcosa, La fine non è la fine c’entra poco con il piacere di ascoltare la musica, è un rebus da risolvere, delle parole da intuire sotto alla coperta dove sono state nascoste. Tutto è improvviso in un disco che in soli 20 minuti articola 9 pezzi densi, senza una parola in più, una nota in più, un riff in più, un disco capace di fondare un approccio alla musica e di portarlo in giro in tutto il mondo parlando una lingua che magari sembra più opportuno immaginarsi in altri contesti, e che ha costretto appassionati di tutto il mondo a scendere a patti con l’italiano, ricopiare i titoli, i testi, ammettere nei commenti di youtube che “I don’t know what they’re saying but it sounds poetic”.
Così, quella domenica, mentre mia madre mi guardava e io fingevo di non accorgermene, La fine non è la fine per me non era più una prova di resistenza, ma una bestia mansueta sotto le mie mani che potevo controllare; potevo mimare con la bocca “Supponiamo che abbia detto che questo non è quello, ciò non servirebbe a niente, le cose devono entrare in noi”, come in Uncaged, la penultima traccia, segno che avevo in qualche modo raggiunto un punto di intesa. Perché disseppellire passaggi di senso dalla musica incomprensibile è stato il lascito di La fine non è la fine su di me, lungi dall’essere solo un altro disco violento.
Non so quando mi sia capitato l’ultima volta di sedermi sui sedili posteriori dell’auto di mio padre, con lui alla guida e mia madre sul sedile del passeggero, e io con gli auricolari nelle orecchie, ma è stato tanto tempo fa, e posso dichiarare certamente finita quell’epoca, come è finito quel periodo in cui i La Quiete facevano musica. Di tanto in tanto fanno una manciata di date in giro, e in una di queste occasioni sono andato a vederli dietro casa, in un’altra ci ho risuonato assieme, ma la mia vita era ed è del tutto differente. Con questo pensiero mi ero affacciato tra il pubblico, partendo dal presupposto di aver chiuso con questa roba: faceva parte del passato, di un me che non esisteva più, non mi era più ricapitato di ascoltare La fine non è la fine in auto coi miei, di ritorno da casa dei nonni sotto a una pioggia di ottobre difficile da scindere dal contesto. E invece anche in quei live sono riusciti a travolgermi nella mareggiata, a convincermi a far parte delle onde, nonostante non ci fossero canzoni nuove, cose nuove, nonostante vivessero in un epoca passata. Se le mode sono come un astro in orbita attorno a te, e passato il momento di zenit tramontano per poi nascondersi dietro al tuo orizzonte fino al momento in cui risorgono da un altro punto cardinale, lo screamo si trovava di certo nella sua notte più buia, nel momento in cui stavo urlando con loro “falsa sembianza, mortale illusione”, senza che per un secondo mi sembrasse uno sfogo nostalgico.
Abituarmi a una musica incomprensibile ha trasformato il mio approccio al reale; accettare che ciò che per te ha un senso può non averne, in nessun modo, per persone alle quali vuoi bene, neppure spiegandoglielo, come ho cercato di non fare qui, aiuta a far pace prima con la musica, e poi con le idee in generale. Il mio primo istinto con la musica che amo è quello di condividerla, accompagnandola con una chiave di lettura. Il coro mugugnato alla fine di Super Omega è uno di quei momenti per i quali sento un istinto di condivisione, uno di quei momenti di senso che ricerco e costruisco. Ma ci sono certi limiti che ho imposto a me stesso. Come posso spiegare a mia madre perché quei venti minuti di urla, strutture che implodono, testi di una bellezza disarmante appositamente nascosti sotto un muro sonoro tale per cui bisogna prendere in mano il foglio per riuscire a capirli, mi hanno fornito una chiave di lettura del reale? Come le racconto che, da quel momento, ho iniziato a cercare nella musica istanti di bellezza nascosti nell’aspro, ai quali si arrivava solo con la resistenza? Mi sono risposto che non è possibile, e che abituarmi a una musica incomprensibile e tenerla per me non è snobismo, anzi, è qualcosa che comunque affronto con un certo senso di colpa, ma è un passaggio necessario dell’accettare la molteplicità delle coscienze, e quello sguardo muto di mia madre, ora mi è chiaro, era parte della stessa accettazione.
Fantastico