I Brand New suonano ancora, noi leggiamo ancora di musica.
Ma la vera domanda è: come mai scriviamo di musica?
Ciao. Spento è una newsletter gratuita che parla di musica, una certa musica, e spesso dice cose che potrai non condividere. Se vuoi continuare a leggerla, il modo migliore per averne ancora è supportarmi. Io sono Marco, faccio il copywriter e nel tempo libero scrivo appunto per liberarmi.
Insomma, i Brand New hanno annunciato che quest’anno faranno alcune date. Finora sono tre, negli Stati Uniti, ma facendo due conti l’anno prossimo il loro disco più importante, The Devil and God are raging inside me, compie 20 anni quindi sarebbe lecito aspettarsi qualcosa, anche se i Brand New non sono esattamente la band di cui poter prevedere il percorso basandosi su quello della band media.
Noi fan della musica cosiddetta “alternativa”, quale che sia, ci ricordiamo solo quando ci fa comodo di essere una nicchia, quale che sia. Nella mia nicchia questo disco è quasi un oggetto sacro, venerato come un idolo. Non lo so come mai, ma è stato chiaro fin dal giorno dell’uscita che lo sarebbe stato, dalle prime recensioni, dai primi ascolti, e non capita quasi mai che qualcosa che al primo ascolto ti appare una frattura storica si riveli poi tale davvero nel tempo, ma questa è l’ennesima eccezione che rappresentano i Brand New. Perciò anche solo spiegarlo a parole questo disco lascia il tempo che trova. È un disco rock, nel senso più ampio ed ecumenico del termine, in cui comandano le chitarre elettriche e la voce sicura e a suo modo mascolina di un front-man. È un disco emo se lo vai a chiedere a chi ama inserire le cose nel proprio contesto storico e di genere, inquadrate nella carriera della band, nelle influenze, nelle band con cui i Brand New condividevano il palco, nella discografia che l’ha preceduto. È un disco post- nel senso in cui si usa questo prefisso di solito in critica musicale, quando si vuol parlare di strutture canzone un po’ oblique, quando si vuole rendere l’idea di un concetto pre-esistente che sconfina oltre, tracimando e diventando pertanto post-quelconcetto.
E così via, perché dal generale al particolare si può atomizzare sempre di più TDAGARIM ma si andrebbe a perdere molto più tempo che ascoltarlo.
A proposito di critica musicale, e a proposito di nicchie, non è che in questa nicchia non ci abbiamo provato a descrivere questo disco, o anche solo a parlarne, perché è naturale provare a parlare delle cose che ci fanno stare male e bene allo stesso tempo senza capirci granché. Per questo, appena uscita la notizia delle nuove date annunciate, siamo andati a recuperare alcune cose scritte sui Brand New, in particolare su un loro “storico” concerto (possiamo dire storico? Inteso sempre in una nicchia, cioè un concerto assolutamente irrilevante e dimenticabile nel firmamento e nella coscienza comune, tranne che per una nicchia che si dice atea ma per la quale ha assunto toni di apparizione trascendentale) al Forum di Assago, anzi per la precisione sotto il Forum di Assago, in un locale di servizio rispetto al palazzetto vero e proprio dove suonano artisti che fanno ben altri numeri rispetto ai Brand New.
E recuperando quei pezzi è stato interessante leggerli, vedere quante cose siano cambiate e quante no, e lasciare da parte un attimo i Brand New per ragionare sul senso stesso dello scrivere di musica. È un tema che si riapre ciclicamente. Magazine che chiudono e altri che riaprono, webzine e siti, blog, newsletter, podcast, tutti a mettere giorno dopo giorno il loro chiodo sulla bara della recensione, dell’intervista, del live report, come se parlare di musica dipendesse dai formati predeterminati nel novecento coi quali lo si faceva.
Le cose che scriviamo rimangono fisse nel tempo, e sembrerebbe che anche i dischi, una volta registrati, rimangano quelli, e ogni loro riproduzione e ascolto non sia altro che una fotocopia di una vecchia esecuzione (Walter Benjamin, mi leggi?). Invece i dischi col cazzo che stanno fermi, crescono negli ascolti. Scopriamo dopo mesi, anni una canzone in fondo al disco che ci faceva schifo o ci lasciava indifferenti, e che poi invece ci parla in una lingua diversa perché nel frattempo, nella vita, ci è successo qualcosa che ha aggiornato il nostro vocabolario.
Rileggersi dopo anni è imbarazzante, riascoltarsi un disco no. A suo modo ogni volta che riascoltiamo un disco, lo ascoltiamo per la prima volta. In questo senso, i dischi hanno una cosa che li fanno assomigliare ai concerti: l’irripetibilità.
Qui di seguito, ci sono due pezzi sui Brand New e TDAGARIM. Un pezzo che Manq ha scritto per un’antologia digitale del 2018 da lui curata, e un pezzo mio da una newsletter che tenevo in pieno lockdown nel 2020. Aveva senso recuperarli per capire qualcosa di una band che nel frattempo se n’è andata in silenzio, quasi disintegrata, ma mai dimenticata. Ha senso rimetterli per capire come mai scriviamo di musica quando le recensioni non le legge più nessuno, quando premere play a un disco è una cosa più facile e quindi meno impegnativa che mai, quando le riviste chiudono e le paghe si azzerano, quando si discute sul fatto che la critica musicale debba essere tecnica, giudizio, storiografia, se debba lasciare dentro o fuori le esperienze personali e tenere invece dentro l’ego; insomma, quando si stabiliscono i confini dello scrivere di musica. Se vi va leggetele, fatevene un’idea, considerate il tempo passato (11 anni da quel concerto, 7 anni da un articolo, 5 dall’altro), e poi diteci la vostra.
La mia è che la critica musicale non sia altro che una misurazione di quanto un singolo disco riesca a bagnare l’esistenza di chi scrive e di chi legge. Come tutte le misurazioni, contiene in sé un errore ineliminabile. Come tutte le misurazioni, vale solo per il momento in cui viene effettuata. Come tutte le misurazioni, ha senso solo in rapporto al numero maggiore possibile di altre, diverse misurazioni.
Più si scrive e si legge di musica, più si arriva a conoscere qualcosa di sé. In un certo senso, con tutta questa roba, la musica non c’entra un cazzo.
Senza titolo
di Manq
Il 27 aprile 2014 arrivo ad Assago in macchina, senza avere la minima idea di cosa possa essere questo fantomatico Live Forum. Parcheggio in uno spiazzo enorme e mi incammino verso l’ingresso. Ho la prevendita, cosa a cui non sono abituato da tempo, ma il numero di auto parcheggiate mi fa pensare che forse aver usato i buoni regalo Ticket One per questo concerto non sia stata un’idea malvagia. I Brand New hanno suonato in Italia solo un’altra volta, sette anni prima, e non è affatto detto ci possano tornare una terza. La possibilità di restare fuori non è un concetto che il mio cervello riesce ad elaborare, quindi nessun rischio può essere ritenuto accettabile.
Il concerto del 2007 me lo ricordo bene per tanti motivi, ma il principale è che The Devil and God are raging inside me era uscito da pochissimo, prendendomi del tutto di sorpresa. Un disco difficile, spiazzante, che ancora non avevo digerito e a cui preferivo senza dubbio i precedenti. Ricordo una conversazione con Mattia, in quell’ambiente soffocante e male illuminato che era il Rainbow Club. Lui a sostenere che “…di Your Favorite Weapon non suonano niente perché, dai, è troppo distante dai Brand New attuali.” e io a rispondere qualcosa tipo “Speriamo invece che non facciano Limousine, che è una palla…”. Non la suonarono, Limousine.
Sette anni dopo la mia percezione della discografia dei Brand New è lievemente cambiata. The Devil and God… è diventato uno dei miei dischi della vita, ma continuo a sperare non taglino Your Favorite Weapon dalla scaletta, o quantomeno Soco Amaretto Lime. Dicono che quando si è innamorati si sentano le farfalle nello stomaco e a me quella canzone fa grossomodo quell’effetto lì, dove con stomaco intendo le budella e con farfalle una mano invisibile che le afferra e le rimesta con vigore. Il Live Forum è una sorta di scantinato ricavato in un sottoscala del Forum vero e proprio, o almeno questa è l’impressione che mi dà. L’illuminazione è scarsa e fortemente filtrata nel blu, l’ambiente è più piccolo di quanto mi sarei aspettato e piuttosto claustrofobico, forse anche perché le persone all’interno sono parecchie. Io sono da solo, come mi capita quasi sempre, così gironzolo tra la folla cercando di beccare qualche conoscente da salutare e magari trasformare in una piacevole compagnia per la serata. Rifletto sul fatto che ai concerti vedo sempre le stesse facce, ma in tutti questi anni non ho mai fatto nulla per trasformare la lunga serie di volti noti in persone che effettivamente conosco. È un gran peccato, penso. Lo penso ogni volta. Il tempo passa lentissimo quando sei da solo e stai aspettando che inizi un concerto, ma se si tratta di un live per cui nutri aspettative altissime la dilatazione dei minuti è se possibile ancora più marcata. Passo al banchetto del merch e vedo le magliette fuori a 25 euro. Il biglietto mi è costato meno, nonostante i diritti di prevendita. Non credo sia del tutto sensato, ma passo oltre. ‘Sto giro niente maglietta, mi dico, non è un dramma. Vagando senza meta finalmente mi imbatto in Marco e nel suo gruppo di amici. Marco non è solo una faccia già vista, è un account twitter con cui interagisco, quindi valuto ci sia margine per accozzarmi a loro senza passare troppo per uno sfigato solo e invadente. Chiacchieriamo un po'. Anche lui mi dice qualcosa tipo “Your Favourite Weapon è un disco trascurabile”, ma mi limito a rispondergli che “non è vero, dai", senza star lì a insistere più di tanto. Non so se sia solo una mia percezione, ma anche lui mi dà l'idea di essere un po' nervoso. Inizio a pensare lo siano tutti, qui dentro. Sette anni dall'ultimo concerto, cinque dall'ultimo disco. Di tempo per far maturare le aspettative ne abbiamo avuto.
Iniziano con “Vices". Non leggo mai le scalette dei concerti prima di andarci, la trovo una cosa masochista, ma ho sentito da Betta che i pezzi di Daisy dal vivo guadagnano uno spessore tutto nuovo. Si può discutere di tutto, ma non del fatto che Daisy sia il disco sbagliato dei Brand New, quindi l'idea di vederlo rinvigorire nella dimensione live mi affascina. Solo che non succede. Da Vices si passa a Gasoline e io resto tiepido. I suoni sono ok, Jesse non tira indietro un millimetro di voce, eppure io non ingrano. At the bottom è il terzo pezzo in scaletta, quindi diventa chiaro che il concerto sarà sostanzialmente diviso in atti e che Daisy si sarebbe preso il primo. Posso starci, penso, meglio togliersi il pensiero da subito. Sono ideologicamente per i crescendo, io. Il primo atto lo chiude You Stole e io inizio ad essere nella situazione, presente a quanto sta accadendo, quasi coinvolto.
Sic transit Gloria… Glory fades investe tutti come un treno. È come scattato un interruttore in ogni singola persona fronte palco, il coinvolgimento diventa totale in mezzo giro di basso. Le persone intorno a me cantano, si accalcano, puntano l’indice verso Jesse. Lo sto facendo anche io. Veniamo tutti risucchiati dentro una tempesta che non lascia scampo né tregua, in cui vengono suonate Guernica, Tommy gun, Spin Light come traino alla doppietta Seventy times 7 / The quiet things. Senza. Una. Pausa. Sono letteralmente in balia dei quattro sul palco. Mettere una band a suonare live funziona da amplificatore. Per alcuni gruppi aumenta il tiro o la potenza del suono, per altri la coesione con i fan. In alcuni casi questo fenomeno ha risvolti negativi, accentuando antipatia o mancanze di chi suona, ma è davvero difficile che una band live “suoni come su disco”. A me in tanti anni è capitato solo coi System of a Down, che ricoprono facilmente il duplice ruolo di eccezione alla regola appena enunciata e peggior investimento di soldi per un concerto della mia vita. Coi Brand New l’amplificatore spara fuori scala l’intensità. Ci vuole un certo pelo per scrivere e cantare le robe che Jesse ci sta gridando addosso e non può funzionare senza portare sul palco quel disagio, quella sofferenza, e farle letteralmente esplodere, suonando come se la valvola di sfogo che teneva tutto dentro, a pressione controllata, fosse di colpo saltata. Sei lì, a qualche metro da lui, e inizi a condividere il peso di quel che gli sta in testa, lo senti crescere sulle tue spalle e dentro allo stomaco, pezzo dopo pezzo.
Quando succede quello che sto per raccontare siamo nel terzo atto, quello di The Devil and God are raging inside me. E siamo già tutti belli provati. In scaletta a quel punto c’è Limousine, il pezzo che sette anni prima non avrei voluto sentire e che invece oggi è tra quelli per cui ho preso il biglietto. La suonano come suonano tutto il resto, senza risparmiarsi, ma sul finale qualcosa scatta nella testa di Jesse e tutto quello che c’è intorno a lui scompare. Si allontana dal microfono, sale su un monitor, ed inizia a gridare alla folla.
We’ll never have to buy adjacent plots of earth… … We’ll never have to rot together underneath dirt…
La voce sul principio è morbida, poi si graffia e diventa via via più ruvida. Fino a rompersi. Nel locale cala un silenzio surreale. Jesse scende dalla spia e inizia a caracollare per il palco, continuando a cantare a squarciagola. Quando passa vicino ai microfoni l’effetto è strano, perché per un attimo soltanto il lamento esce anche dalle casse, generando come delle onde nel suono. Esattamente come le onde, è una cosa che prende lo stomaco.
I’ll never have to lose my baby in the crowd…
… I should be laughing right now
A fine pezzo, Jesse è distrutto. In lacrime. C’è una pausa. Vinnie gli si accosta un secondo, sono entrambi di spalle e io non sto capendo cosa cazzo sia successo. Immagino di avere un’espressione attonita, conscio di aver appena visto la roba più emozionante, intensa e coinvolgente mai capitatami ad un concerto. Vinnie ora sta abbracciando Jesse, ma non so cosa stiano facendo gli altri due perché non riesco a distogliere lo sguardo. Sono pochi secondi in cui penso che forse la vuol finire qui, che non ci sia modo di andare avanti dopo una cosa del genere. Invece si gira. E attacca Jesus.
Il concerto prosegue con Degausser e You won’t know prima della conclusione, lasciata proprio a Soco Amaretto Lime. Ormai sono completamente dentro la situazione. Non vedo i contorni, è un globo di persone e suoni fuso insieme. Finisce senza encore, si accendono le luci e sono frastornato come alla fine di uno di quei sogni che nei primi istanti post risveglio non realizzi se siano tali o se sia stato tutto vero. Ho solo il bisogno di andare al banchetto e pagare 25 euro per una maglietta.
Sono passati più di quattro anni da quel concerto e sono successe un mare di cose. I Brand New poco dopo quel tour hanno deciso che avrebbero continuato a suonare ancora pochi anni, giusto il tempo di far uscire un ultimo disco e salutare tutti con un ultimo tour. Jesse intanto sembrava aver messo a posto la sua vita: una moglie, una figlia, la serenità. Il disco è uscito nel 2017 col titolo Science Fiction. Come successo per The God and Devil… sono stato preso in brutale contropiede. È uscito senza annunci, una sera mentre ero in vacanza. L’ho etichettato male e troppo presto per poi rivalutarlo, tanto, molto tempo dopo. I Brand New però non sono band da happy ending. Il tour d’addio non c’è mai stato ed è lecito pensare mai ci sarà. In piena esplosione #MeToo sono uscite delle voci, delle testimonianze, in merito a Jesse e ad alcune sue condotte. Larga parte della fanbase gli si è rivoltata contro, le band che avrebbero dovuto suonare con loro durante il tour di addio si son tirate indietro, le date sono state cancellate. Da lì un silenzio tombale che con ogni probabilità non verrà mai rotto. Non c’è modo di andare avanti dopo una cosa del genere. Mentre scrivo però mi è impossibile negare la speranza per cui Jesse, d’improvviso e quando ormai nessuno ci crede più, si giri e attacchi Jesus.
Castelli di sabbia
di Marco Vezzaro
I was losing all my friends
Ero in auto, fermi, parcheggiati, di sera, davanti a un locale che oggi non esiste più, chiuso e demolito, ma che per me ha significato la musica dal vivo per tanto tempo.
Questo è il nuovo dei Brand New, mi ha detto l’amico in macchina, ma io il vecchio non l’avevo sentito, quindi la frase è arrivata nel mio cervello così: questi sono i Brand New.
Le mie maestre dicevano che ero da liceo classico, non è che avessi bene idea di cosa significasse, sapevo che c’erano il latino e il greco, all’epoca mi chiedevo che senso avesse imparare delle lingue morte, quando mi sarebbero servite? È finita che mi sono iscritto allo scientifico, perché ci andava mio fratello e perché ero vicino a casa, e in fondo a me interessava poco dove sarei andato, non avrei comunque mai più visto la ragazza che avevo inseguito per sei anni.
I miei genitori mi dicevano che facevo dei giochi di parole molto acuti. I genitori sono sempre poco obiettivi coi figli; certo, io l’ho scoperto dai genitori dei miei amici, non dai miei. Mi piaceva creare le cose. Ho provato a disegnare, ma mi sono presto stufato delle mie linee storte, del mio tratto troppo indeciso; un’altra cosa con cui ancora non ero sceso a patti era l’impazienza.
Ho imparato qualche trucco da mago, ricordo anche di essermi esibito alla festa di mia cugina, pensa che patetico pezzo di merda. Ora se vedo un numero di magia mi viene il rigetto, forse perché ho quella necessità di pulire il mio passato da ciò che mi imbarazza, rivedere la storia come se i miei successi, seppur pochi, non si fossero costruiti sulla marea di cartucce sparate a vuoto. Avevo dei burattini di stoffa con le maschere di carnevale, e un teatrino, mi divertivo a fare spettacoli con le mani. Organizzavo fitti programmi alle feste di compleanno nella mia taverna. Non si poteva sgarrare un secondo.
Poi è arrivata la musica. La batteria, la chitarra elettrica di mio zio, che ho tenuto in ostaggio qualche anno, prima di comprarmi la mia. Non volevo solo suonare, volevo comporre. Sono uscito da scuola arrabbiato, sono entrato all’università liberato, pensando che le mie maestre delle medie avevano ragione, e come al solito l’avevo capito tardi, ma non troppo tardi.
Quindi cosa vuoi fare nella vita? Non lo so esattamente. Vorrei creare qualcosa, qualcosa di coinvolgente dall’inizio alla fine, qualcosa che sono in grado di fare soltanto io. Sì, ma sai che per il momento stai solo copiando, imitando, emulando. Fai le cose che ti piacciono, certo, magari le fai anche bene, ma già esistono. In realtà sì, lo so. È che penso di avere tempo. Ce l’ho il tempo, no? Non è tanto il tempo, è il talento. Ce l’hai il talento? Sai questa è una domanda bastarda. Perché non te lo posso dire io. Perché vedi, io posso anche dirti di sì, pensare davvero di sì, ma sono la persona più sbagliata per giudicare qualcosa di mio. Perché poi finisco a dire qualcosa che potrebbero aver detto di me i miei genitori. Allora mi sono imposto di non avere pace su questo. Ho cancellato, nascosto, distrutto, abbandonato, eliminato tante cose. Fino a quando non mi sentirò pronto. E come ci si sente quando si è pronti? Cioè, quando lo capisci? Non lo so, non mi è mai capitato. Già.
The Devil & God are Raging Inside me è il primo disco lacerante della mia vita, inteso come un’opera strutturata per essere ascoltata nella sua interezza, dall’inizio alla fine, che trasforma una band normale in una band culto, che fonda un suono e al tempo stesso lo uccide, rendendolo irreplicabile se non da loro stessi, che racconta il dolore e l’inadeguatezza con una franchezza capace di metterti in imbarazzo, senza strumenti per capire tutto fino in fondo, ma la sgradevole eppure irrinunciabile sensazione di aver ascoltato qualcosa senza riuscire a risolverlo.
Prendi Jesus Christ. È solo un arpeggio di chitarra pulita, che si ripete fino a quando la canzone non sfuma, ma sopra c’è un testo capace di smontare la fede la fede come un cubo di Rubik e ricomporla, lasciandola migliore di come la si è trovata. C’è l’inizio, Sowing Season, che nel ritornello dice solo Yeah, ed è diventato il mio paradigma dell’urlo di dolore per il post-ventanni.
Suonare, e poi fallire.
In un incubo che ho fatto di recente sono a un mio concerto, sono in un posto che, come spesso accade quando si sogna, fonde due luoghi che appartengono alla tua memoria più fondante in uno non esistente che ti pare di conoscere da prima di essere nato. È un mio concerto, ma io non sono preparato, non ricordo le canzoni, non sono nemmeno certo di esserm…
pensa che roba, di Jesus Christ avevamo parlato anche qui in questo pezzo
C’è l’avanzata cingolata di Degausser, c’è il lunghissimo bridge di Limousine, c’è il finale di Luca che ti prende a sberle. Ci sono Welcome to Bangkok e Untitled, che non sono solo intermezzi, sono i punti che rilegano il libro.
Non mi ricordo chi era l’amico che sedeva accanto a me in macchina quando i Brand New hanno fatto a pezzi quasi all’istante la mia adolescenza nel 2006. Rispetto a quei tempi, mi sembra che gli spazi e le persone si stiano erodendo, come se all’improvviso frammenti della superficie collassassero, e lasciandomi intravedere le stratificazioni e le radici di ciò che resta in piedi. È meglio conoscere una porzione più ristretta e più profonda delle cose? Un disco, un’opera, è tanto più bella quanto più è stratificata? È questo il talento? Costruire su una ricerca distruttiva?
Facevo tanti castelli di sabbia al mare, ho continuato a farli anche quando ero troppo grande. Nelle lunghe passeggiate che facevo, mi imbattevo in castelli fatti dagli altri. Non ne distruggevo e calpestavo neppure uno, in rigoroso rispetto delle costruzioni altrui. Per i miei invece non avevo pietà. Li erigevo con cura maniacale, dettagli, strumenti anche più sofisticati delle palette giocattolo. Poi li osservavo, e veniva la parte più bella. Mi ricordo che una volta mia madre mi chiese “Perché lo distruggi?” e io senza pensarci troppo risposi, forse più sincero di quanto volevo essere “Perché non voglio che lo facciano gli altri.”