Let go of every human feeling, embrace the hurt and continue bleeding
Non andavo allo stadio da un paio d’anni. Forse addirittura tre.
Non saprei dire se mi fosse realmente mancato, credo che più semplicemente mi mancasse passare un po’ di tempo con mio padre. So perfettamente che il rapporto che ho instaurato con lui è l’esatto contrario di quello che ogni padre sogna di avere con il proprio figlio e di questo me ne assumo ogni responsabilità. È tutta colpa mia e lo sappiamo bene entrambi. Guardare le partite con lui, per quanto si tratti di un gesto minore e quasi insignificante, mi permette di sentirmi meno in colpa, meno miserabile per una manciata di giorni.
Assistere a una partita all’Euganeo non è un’esperienza normale. Si tratta di un atto di fede, di sottomissione. Un tragico arrendersi alle ingiustizie e ai dolori della vita. Lo spettacolo desolante in campo e le peripezie necessarie per raggiungere lo stadio sono fattori che spingono a porsi domande scomode, spesso senza risposta.
L’Euganeo non è solo uno degli stadi più brutti d’Italia, ma anche uno dei peggio strutturati. Nonostante in linea d’aria disti pochi minuti da casa, mi è necessario partire un’ora prima del calcio d’inizio. Il traffico, l’imbottigliamento sistematico all’ingresso/uscita del parcheggio fanno da preambolo a quella che è la vera tragedia, ossia la camminata infinita necessaria per raggiungere gli spalti. Un tragitto disperatamente lungo, da percorrere indipendentemente dalla situazione climatica con il cuore in mano. Voci incontrollate narrano di numerosi tifosi spirati durante il percorso. Chi per stenti, chi assiderato. Vittime dimenticate. Eroi dei nostri tempi.
Una quindicina di anni fa, in occasione di un Padova-Pizzighettone 0-1, sono finalmente arrivato alla verità. Lo Stadio Euganeo non è altro che un Purgatorio dalla potenziale cadenza settimanale. Anzi, non essendo possibile l’espiazione dei propri peccati, l’Euganeo rappresenta a tutti gli effetti una terrena finestra sull’Inferno. Un Inferno fatto di partite orribili, seggiolini scomodi, giocatori scarsi e risultati avvilenti.
Il fallimento del rapporto con mio padre forse sta tutto qui, nell’aver voluto macchiare il nostro tempo insieme con un’esperienza devota al patimento e alla sofferenza.
These conversations are fake. Is this really what you want to say?
Cammino sull’asfalto rovinato e mi rendo conto che questa strada non l’ho mai percorsa senza mio padre. È una cosa nostra. Vero, talvolta si è aggiunto qualche amico o qualche parente, ma con il loro ricordo vacuo e distante questa passeggiata resta unicamente nostra.
Potrà sorprendere, ma il tragitto dal parcheggio alla Tribuna Est ha un enorme potenziale esistenziale. La strada larghissima, i campi trascurati che la cingono ai fianchi. All’orizzonte si staglia lontanissimo lo stadio, grande al massimo quanto un biscotto. È un contesto vigliacco, che ogni volta mi spinge a pensare. Alla vita, al continuo sabotaggio del rapporto con i miei genitori. Guardo mio padre arrancare sulla grossolana colata di cemento e mi viene voglia di arrestarmi davanti a lui, così da fermarlo. Vorrei guardarlo negli occhi e dirgli che mi sento schifosamente solo e pesante. Non ci riesco e continuo a camminare. Dopo pochi passi comincio a realizzare che questa potrebbe essere l’occasione buona per chiedere a papà come se la passa, come sta veramente. Cosa significa diventare anziani e se alla fine ne valga veramente la pena. Non ci riesco e comincio a parlare del Padova. Di come consideri il nostro Ronaldo più forte di quello portoghese e di quanto mi stia sulle palle Santini.
Del resto, sulla carta questa faccenda dell’incomunicabilità non sarebbe poi così male. Nessuno mi chiede nulla, ognuno si fa gli affari propri. Peccato che dopo un po’ tutti comincino inesorabilmente ad allontanarsi e una volta rimasto solo diventa difficile trovare un senso a tutto questo.
Better start writing down all the songs that we know by heart before we forget them
È dura ammetterlo, ma ormai la musica per me non occupa più un posto di grande rilievo. Diciamo che si accontenta di starsene timidamente sullo sfondo e comparire solo quando espressamente interpellata. Che sia dovuto alla comparsa di interessi diversi o a una questione anagrafica, non mi è dato saperlo. So solo che invecchiando mi riesce sempre più difficile appassionarmi o anche solo lasciarmi sorprendere da qualcosa.
Per quel che riguarda la musica la situazione è piuttosto complicata. Questo perché oggi un disco deve essere in grado di andare oltre. Andare oltre a una bella melodia, a un giro di chitarra particolare o a un fill di batteria interessante. Sento il triste bisogno di creare un certo tipo di legame con la musica che ascolto, con chi l’ha composta. Voglio illudermi che tra noi ci sia una connessione, un background simile, delle esperienze condivise o una visione del mondo non troppo distante. Un’ottica apparentemente classista, che in realtà è un semplice tentativo di giocare sicuro, di provare in tutti i modi ad evitare spiacevoli delusioni o perdite di tempo.
Rare Instances Of Independent Thinking degli I Like Allie è il disco al quale mi sono inchiodato nel desolante finale dello scorso anno. Non per affrontare quei giorni e nemmeno per lasciarmi andare. Semplicemente per sentirmi un po’ meno solo nel momento in cui ho deciso di accettarli così come arrivavano. Rare Instances è capace di andare oltre le splendide canzoni e oltre la mia politica di accontentarmi, soprattutto in periodo di vacche magre, perché l’impatto che ha avuto su di me non mi ha mai permesso nemmeno di prendere in considerazione la possibilità di giocare al ribasso. È un disco generoso perché non soltanto mi ha saldamente afferrato per mano, ma si è premurato di ridarmi indietro tutto quello che si è preso ad ogni ascolto. Per ogni brutto ricordo fatto tornare a galla ho ricevuto una grande melodia, per ogni errore riportato alla mente uno splendido giro di chitarra o il bridge di The Chaser. Rare Instances Of Independent Thinking è stato sicuramente capace di andare oltre. Di andare oltre a tutto, anche al suo status di “semplice” disco punk-rock.
I want superpowers to make the pain go away
Sono stati tre gli istanti che hanno segnato la mia vita. Scegliere una scuola a indirizzo tecnico, il Padova che perde con il Novara i playoff per andare in Serie A e il giorno in cui sono stato mollato dall’unica persona alla quale sia mai riuscito a parlare. Se per il primo posso trovare qualche aspetto positivo, gli altri due sono banali istanti di comune dolore. Tanto diversi quanto ugualmente spiacevoli e impossibili da cancellare completamente.
Mentre mi lascio l’Euganeo alle spalle mi torna in mente quella volta in cui sono andato a trovare mio padre in ospedale. Non stava male, lo slittamento di un esame lo aveva costretto a passare il week-end nel reparto di cardiologia. Era piena estate, c’era un caldo omicida e arrivato grondante di sudore nell’area comune ricordo di averlo visto imbarazzato nel camice d’ordinanza, mentre reggeva stancamente l’asta alla quale era appesa la sua flebo. Non l’avevo mai visto così vecchio. L’ago che si infilava sotto pelle mi sembrava gigantesco, tanto che alla fine della sua corsa appariva come una scimitarra intenta a mozzargli il braccio all’altezza del gomito. La sua pelle era piena di macchie dell’età che di minuto in minuto si moltiplicavano, come se fosse in grado di rubare quelle degli altri pazienti per trasferirle su di sé. In ospedale quel giorno, nonostante la situazione fosse tranquilla e non esistesse nulla di concreto per allarmarsi, ho capito che l’unico modo efficace per affrontare il fatidico giorno sarebbe quello di non esserci più. Con tutti gli aspetti negativi che ciò chiaramente comporterebbe.
Mi dispiace non essere riuscito a raddrizzare il tiro. O meglio, odio sapere di non averci mai nemmeno provato. La verità è che l’intera situazione non me la sono andata a cercare, è capitata. A causa di qualche sfiga e soprattutto di una quantità spropositata di errori. L’esserci sceso a patti, l’averci fatto il callo, è l’unico meccanismo di difesa in mio possesso per cercare di non farmi sommergere. La mia resa è diventata chiara ai miei genitori solo in tempi recenti, ed è stato un colpo che non credo siano riusciti ad assorbire. Fa male non poter cancellare quell’alone di delusione misto a senso di colpa che vedo nei loro occhi e vorrei soltanto ci fosse un modo per sciacquargli via il dolore di dosso.
Sarei disposto a tutto, anche a studiare informatica per altri dieci anni e farmi mollare un lunedì sera di fine ottobre altre cento volte
Perdere un’altra finale playoff però no, quello no. Quello sarebbe troppo, soprattutto per mio papà. Anche perché con il Padova in Serie A cambierebbe ogni cosa. I problemi sparirebbero, le incomprensioni e le delusioni diventerebbero all’istante il passato. Nascerebbe una nuova ed eccitante vita. Tutto diventerebbe più luminoso ed entusiasmante. L’Euganeo, le partite, i seggiolini scomodi.
Perfino i merdosi 15 km che dividono il parcheggio dagli spalti.