Le cose di chi muore
Sette anni fa mio nonno se ne andò. Io riordinai le sue cose, e scrissi questo pezzo, ascoltando questo disco.
Questo pezzo è del 18 marzo 2016
In un certo senso, ero pronto alla morte di mio nonno, per quanto sia stata una valanga sempre più accelerata. Si può imparare dai lutti, si può imparare che ogni visita può essere l’ultima, che concedere al nostro tempo indaffarato una visita a loro è un passo che ci separa dalla solitudine che un giorno toccherà a noi.
In un certo senso ero pronto perché questo Natale, nel loro salone, che io ho conosciuto sempre straripante di zii, nipoti e di una famiglia che negli anni si è crepata ma che di pezzi non ne ha persi mai, ma che per la maggior parte dei giorni dell’anno era governato da una calma stantia come può esserlo solo il nostro declino fisico, ho percepito nettamente per la prima volta la compiutezza di quel momento.
Ho sempre trovato piacevole fare conversazione con mio nonno. Era una persona profondamente cattolica, ma che non definirei religiosa. Non nel senso spirituale del termine. Non era solito tirare fuori concetti trascendenti, né consciamente né nei motti e nei modi di dire radicalmente veneti. Mai un “Lo sa solo Dio”, mai un “Ah, Signore!”. Sembrava quasi che per lui la religione non fosse un fatto linguistico, né tantomeno confidenziale. Una dimensione strettamente privata, o dalla quale comunque mi teneva fuori con cortesia, eppure estrema attenzione. Molto più di tutto questo me lo raccontavano le sue cose. I libri sulla spiritualità, i libri del Papa, il numero di Famiglia Cristiana sempre pronto sul divano, il Presepe più sobrio che abbia mai visto, con il bue, l’asinello, Maria, Giuseppe e il Bambino in culla, sul mobile dove per tutto il resto dell’anno stava un abat-jour; i santini, le croci e le madonne appese ai muri, in bilico sui comò, sul calendario in cucina in cui tutte le ricorrenze famigliari erano segnate meticolosamente, e con una presenza sempre più fitta di appuntamenti medici. Se le sue cose non avessero parlato di lui, forse non l’avrei conosciuto così bene.
Dal mio posto di lavoro alla casa dei miei nonni ci sono circa sei, sette minuti di strada. Nell’ultimo mese è stato un viaggio ricorrente, per assistere a qualche pranzo ormai spogliato dall’appetito. Sì, trovavo piacevole parlarci, e sostanzialmente per questo, una delle ultime volte che l’ho visto, ero scappato dall’ufficio in pausa pranzo per vederli mangiare, salutarli, sincerarmi di una situazione che in famiglia mi raccontavano come preoccupante all’improvviso. Preoccupante lo era, sì, con una nonna ormai persa nella nebbia di quel morbo che ti cancella i ricordi, incapace di distinguere giornate tutte uguali, e lui invece lucido di disperazione, consapevole di non farcela più, che spendeva le sue ultime energie ad assicurarsi che sua moglie prendesse tutte le medicine previste. Volevo parlarci, provare a distrarlo, e allora gli chiesi cosa prendeva a colazione. Mi guardò come chi sa la risposta ma non riesce ad aprire bocca per paura di sbagliare. Il caffè con... mi disse, per poi fermarsi. Mi dimenticai di averglielo chiesto quasi subito, in fondo ero riuscito a distrarlo, e invece avevo finito per distrarmi io, e chiedere qualcosa a mia nonna. Quando posai di nuovo lo sguardo su di lui, si era alzato da tavola, aveva raggiunto la dispensa e mi stava mostrando il barattolo con la grande scritta in rosso ORZO. Me la indicava. Allora ricordai. È stato l’ultimo gesto che ha fatto per me. Non si ricordava una parola, allora mi ha portato la cosa che quella parola rappresentava.
Gli ultimi trent’anni della sua vita, che sono stati i miei primi, mio nonno li ha passati a dipingere, e per l’esattezza a dipingere cose: nature morte, cesti di frutta, vasi, ampolle, bottiglie, pozzi, libri, per poi spostarsi sui paesaggi e rischiare di tanto in tanto dei ritratti.
Lo andavo a trovare sempre meno spesso, perciò ogni volta che passavo aveva sempre più pezzi da mostrarmi; ricordava sempre dov’ero rimasto col segno. Forse, pensandoci adesso avrei dovuto ricordarlo anch’io.
Una mattina grigia dell’anno scorso lo convinsi a farsi accompagnare dal dentista, che aveva lo studio a più di 30 km da casa sua, nell’alta campagna padovana, a Massanzago.
Massanzago è un paese piatto e senza niente che si raggiunge attraverso quelle statali spoglie, tutte dritte, residuato della pianificazione romana, mentre si solcano campagne dai colori fangosi, a metà tra un’opulenza di cui ormai non è rimasto che il cemento e la miseria di chi non vuole che le cose cambino. Parlammo tanto in quei due viaggi verso Massanzago che facemmo. Io avevo trovato un lavoro da poco, lui mi raccontò dei lavori che aveva fatto: della società elettrica, della miniera a Carbonia-Iglesias, dove per due giorni scampò al massacro di una rapina che non fece prigionieri. Perché in fondo, in mancanza delle cose che parlassero per lui, si concedeva volentieri ai racconti. Voleva solo la certezza di non rompere le scatole a chi ascoltava.
Ma soprattutto, quel viaggio a Massanzago mi offrì un’occasione di riparare un rimorso enorme.
Lungo la strada, vicino alla casa dove da anni faccio le prove col mio gruppo, c’era un rudere di campagna che stava per crollare, e la rete di plastica arancione ammoniva che presto qualcuno l’avrebbe demolita. Mio nonno mi disse che ogni volta che passava di lì voleva fermarsi per fotografare quella casa, per poi poterla dipingere con calma nel suo studiolo, ma non aveva mai la macchina fotografica con sé. Dissi a mio nonno che l’avrei fatto io, tanto facevo quella strada una volta alla settimana per andare a suonare. Mio nonno sembrò grato di questa cosa, come se non ci sperasse nemmeno.
Appena lo riaccompagnai a casa capii cosa stava succedendo. Il mio nonno materno morì nel 2005, era un cercatore di funghi, e negli ultimi anni ci aveva portati con sé nei boschi. Una mattina avevamo trovato dei porcini enormi, li avevamo portati a casa, puliti e fotografati, un po’ come gli americani fanno con le trote. Mio nonno era raggiante, e ci aveva chiesto di avere le foto, una volta che avessimo sviluppato il rullino. Aveva passato poi qualche mese a chiedermi delle foto che io forse non sviluppai mai, fino a quando non morì.
Le cose mi stavano offrendo un riscatto. Non passarono molti giorni, e feci la strada per la sala prove. Persi un po’ l’orientamento, non riuscivo a individuare la casa. Possibile che in quei due cazzo di giorni avessero buttato giù quel rudere? Avrei avuto un’imperdonabile promessa non mantenuta anche nei confronti del mio nonno paterno? Feci un altro chilometro e la vidi. Non credo di essere mai stato tanto felice di vedere un rudere. Scesi dall’auto, feci delle foto da ogni angolazione possibile. Mi aiutava una giornata di sole, di quelle in cui il cielo fa quasi ansia da quanto è azzurro.
Rimontai in auto, corsi verso la città e le portai subito a far sviluppare. Non era più questione di rullini e di camere oscure ormai, ma di schedine SD e terminali che stampano le foto in alta risoluzione. Portai le foto a mio nonno il giorno stesso, che forse aveva ancora male ai denti da qualche giorno prima. Qualche mese dopo, mi fece vedere la sua tela in cui aveva riprodotto il rudere.
È bellissimo nonno, dissi, e non parlavo solo del quadro.
Ero pronto alla morte di mio nonno perché non riuscivo a immaginarlo a spremersi ancora. Ero pronto perché a un certo punto riesci a capire quando qualcuno molla la presa, e io, per stare male prima, ho iniziato ad ascoltare il disco che sapevo mi avrebbe accompagnato alla sua fine. Ascolto quasi tutto in chiavetta USB, da mp3. Ma Carrie & Lowell di Sufjan Stevens l’ho ascoltato da supporto fisico per tutto questo tempo, perché mi sembrava di dovergli un po’ di corporeità.
Questa settimana sono stato a casa sua senza di lui per la prima volta nella mia vita, a riordinare la cameretta dove dipingeva. Sul cavalletto c’era ancora l’ultimo quadro su cui stava lavorando. Sembra finito, ma probabilmente lo sa solo lui. Ho riordinato le sue tele, alcune le ho portate nel garage, dove ne ho trovate altrettante ordinate su degli scaffali. Abbiamo ritrovato uno scatolone pieno di pennelli e tempere, con su scritto ENZO, con la sua grafia non eccelsa ma precisa, rigorosa.
Ho cercato di farmi trovare pronto alla morte di mio nonno, ma non ero pronto alle cose di chi muore, mi sono rimaste tra le mani, sono rimaste solo loro a parlarmi di lui al presente. E mi è rimasto un disco che continua ad andare, che non abbandona i miei ascolti e gira nello stereo, scaldandosi.