Sono stato condannato al letto a castello per anni. Da bambino no, ero troppo piccolo, potevo cadere, farmi molto male. E proprio da bambino lo guardavo, quel letto che spettava a mio fratello, come una torre da conquistare. Pensavo che un giorno avrei potuto salirci anch’io, e dominare tutto dall’alto, avvistare il nemico, ripararmi, addormentarmi al sicuro. Poi un giorno ci sono salito, e non ci sono più sceso.
Da allora, per me andare a dormire ha sempre significato salire una scala a pioli, anche quando io e mio fratello eravamo talmente grandi da fare in due un uomo di cinquantanni, e due esistenze talmente differenti che a volte parlarsi è davvero come coprire il doppio della mappa che saresti in grado di svelarti in una vita. E forse dormire nella stessa camera per ventisei anni, ma ad altezze sempre diverse, perché nella nostra camera non ci stavamo distesi uno di fronte all’altro, ha significato qualcosa. Quella camera era troppo piccola per contenere due mondi, ma in un modo o nell’altro ci è riuscita. L’abbiamo riempita di oggetti dimenticati, di sporco, di figurine appiccicate al legno che poi hanno lasciato quella schiuma bianca degli adesivi tolti male, come fanno le onde sulla spiaggia, abbiamo rotto il mobile che ci aveva costruito mio padre per ospitare i nostri compiti, poi abbiamo cercato di fare in modo che la colla tenesse. Abbiamo tenuto i nostri vestiti in armadi piccoli, ché tanto il grosso era in altri armadi, da altre parti nella casa. Abbiamo messo un computer, quando un computer ancora occupava dello spazio e costringeva a ingegnarsi un po’: o la porta finestra aperta, o il computer. Sceglievamo sempre il secondo.
C’è stato un momento in cui quella camera l’ho guardata dall’uscio, e ho pensato che non ci avrei passato ancora molto tempo. Rendermene conto, dopo che per me era stato il posto in cui andare dal 1990, non è stato facile, ed è forse per questo che ho preso una decisione controintuitiva.
“La svuoto, la rifaccio, compro mobili nuovi, ottimizzo lo spazio”. Ho pensato che, se dovevo passarci gli ultimi anni, dovevo farlo come volevo io, come avrei fatto in una casa nuova. Avrei voluto andarmene da quella camera non odiandola perché mi ricordava che non ero più bambino, ma rimpiangendola perché aveva saputo vedermi adulto.
Mio fratello non partecipò molto alla cosa, per lui in quel momento era l’ultimo dei pensieri, e i pensieri erano tanti. Feci tutto da solo, ma d’altronde non se ne lamentò mai, non si oppose.
Non avevo alternative al letto a castello, sempre per quella ragione che non ci stavamo distesi di fronte, e quindi ne presi uno a soppalco, dell’ikea, in metallo. Una cosa un po’ da ostello, ma dipingendo il muro dello stesso colore di quel metallo sembrava quasi una soluzione di pregio. Presi due scrivanie uguali, due di quegli scaffali di pino modulari che mi piacciono tanto, un armadio color ghiaccio con lo specchio, che con il muro antracite stava una meraviglia. Sembrava ci fosse più spazio. più luce. Cosa non fanno due colori messi giusti, e qualche centimetro rosicchiato per farci stare due corpi ormai mastodontici per coprire otto metri quadrati.
La prima volta che provai a salire sul letto a castello nuovo non avevo le misure del peso, feci troppa forza aggrappandomici, e ballò.
Mi era successo già di svegliarmi, una notte del maggio del 2012, perché il letto ballava, ma stavolta non ero stato io, era stato il terremoto. Non lo capii subito, ma poco dopo, sentendo gli allarmi delle auto parcheggiate in strada suonare, ed entrare dalla finestra. Forse non mi ero addormentato da troppo, erano le prime ore della notte. La prima cosa a cui pensai, lo ricordo come se fossero state parole, fu mio padre. Come stava, dove dormiva, dove lo aveva colto il terremoto.
Mio padre aveva fatto la valigia ed era andato via di casa la sera prima. Non era la prima volta che succedeva, e ad ogni ritorno aveva lasciato la valigia pronta in garage, perché forse lo sapeva già meglio di me che non era più un ritorno, era una sala d’aspetto, come ce ne sono ancora in alcune banchine delle stazioni ferroviarie. Forse ero arrabbiato con lui, forse ero arrabbiato con i miei genitori in generale, per non aver saputo superare delle difficoltà per noi; non ero piccolo, ma credevo ancora che gli adulti potessero venirne fuori dalle cose, ad ogni costo; la cosa che non avevo capito è che venirne fuori non porta quasi mai a un ristabilire le cose com’erano prima. Ero arrabbiato, ma di fronte alla violenza di quei quattro secondi di terremoto, che avevano fatto ballare il mio letto a castello, pensai a mio padre, e sperai che stesse bene.
Un giorno, di fronte a casa del mio nonno materno, io e mio fratello eravamo ancora bambini, ed eravamo stati a pranzo dai nonni. Stavamo salendo in auto, in via Fowst; non ricordo molto, ma mio padre era di cattivo umore, per un motivo che mi sfugge. Si arrabbiò con mio fratello, e gettò a terra un lavoretto che mio fratello aveva fatto attaccando della pasta Barilla con la colla su un cartoncino. Il lavoretto si ruppe, mio fratello pianse, io no, ma mi si ruppe qualcosa dentro. Non avevo mai visto mio padre così, e non lo rividi mai più fare una cosa del genere, ma non me lo dimenticai mai quel pezzo di pasta, una rotella, spaccato in due, vicino al pneumatico dell’auto.
Il 29 aprile è il compleanno di mio padre e del mio nonno materno, che probabilmente aveva visto tutto dalla finestra, perché ci seguiva sempre andarcene fino a quando l’auto non si vedeva più, in fondo alla via, e ha continuato a farlo fino a che non è morto. Mia madre ha legato i due uomini della sua vita al 29 aprile. Ho pensato a che cosa significa festeggiare mio padre lo stesso giorno in cui mia madre, sua moglie, festeggiava il suo di padre. Non riesco a non credere che l’abbia scelto anche per questo. Mio padre è sempre stato una presenza pacata e appassionata, nella mia vita. Se dovessi regalargli un disco sarebbe Clinging to a Scheme, dei Radio Dept. Non penso che gli piacerebbe, non è roba sua. Ma ha quella voce effettata, sempre monocorde e pacata, costruita su melodie semplici e presenze ovattate, come in A Token of Gratitude, nel bridge di pianoforte di Heaven’s on Fire, che mi ricorda i pomeriggi che passava lui a suonare la pianola, inseguendo motivi che poi ho riconosciuto nella musica degli anni ’70. Mio padre non si è mai arrabbiato, non l’ho mai visto furioso, non ha mai urlato nelle mie orecchie la sua passione per la musica, e l’ho presa da lui così. Mi ha fatto trovare della musica in casa, senza lanciarmela addosso. Quando quel terremoto mi ha svegliato di soprassalto, nei primi giorni in cui stavo tentando di accettare che sarebbe stato ancora mio padre, ma non avrebbe più dormito nella casa in cui mi aveva cresciuto, ho pensato che mi sarebbe mancato più di quanto la rabbia stesse cercando di nascondermi.
Non so se esista un’emozione opposta alla rabbia. Ma esiste un disco che lo è, e che mi parla di mio padre senza che mio padre l’abbia mai ascoltato.