di Giuseppe Mancuso, proprio lui, quello di manq.it
Intorno alle 8 di mattina io mi infilo in macchina e guido per circa un’ora, destinazione ufficio. La stessa operazione, ma in senso contrario, la faccio nove ore dopo per rientrare a casa. Nell’ultimo periodo si è parlato abbastanza di come l’aria di dove vivo sia tra le peggiori del mondo, drasticamente oltre la soglia di guardia per la salute delle persone che se la devono respirare. Ecco, è anche colpa mia.
Faccio uno di quei lavori che, quando ero ragazzo, Hollywood ci ha insegnato a definire da “colletto bianco” e il fatto che io ci vada in Vans e felpa non lo nobilita neanche un po’. Probabilmente nel corso degli anni qualcuno ha capito che assecondare le nostre volontà di non omologazione ai canoni estetici da ufficio anni ottanta fosse un prezzo abbastanza abbordabile per comprare la nostra integrità e, facendo un bilancio sommario, direi che aveva ragione. Io ancora valuto come un benefit non dover mettere la giacca e la camicia, se c’è uno che si è comprato questa gigantesca balla sono io. Colpevole, di nuovo.
I dettagli di quel che faccio non sono interessanti, servirebbero giusto a colorare in maniera eccentrica un fine ultimo che invece è trasversale a quasi tutti i lavori: arricchire altri raccattando più briciole possibile. Una vita da casualties del capitalismo. A me dice bene, abbastanza bene da farmi portare a casa più di quanto strettamente necessario e poterlo spendere per mettere molti chilometri tra me e la mia quotidianità ogni volta che posso andare in vacanza.
Eppure.
Eppure la consapevolezza di essere un ingranaggio dentro la macchina infernale che ci sta tritando tutti diventa ogni giorno, ogni anno, più opprimente. Non ho mai avuto la velleità di essere quello che la macchina l’avrebbe inceppata, ma forse la mia vita è uscita da quella fase frenetica in cui le cose ti succedono una via l’altra, in cui ogni traguardo ne sblocca immediatamente uno successivo senza darti il tempo di guardare indietro e renderti conto della strada che hai fatto. Così, per tornare al discorso di prima, mi sono ritrovato in un posto che non mi appartiene a chiedermi come sia potuto succedere. In fin dei conti non ho mai smesso di mettere le mie cazzo di Vans.
“Cambia lavoro.”
Sono dieci anni che lavoro dove sto ora. Pochi mesi dopo aver iniziato, un collega mi disse “Siamo nel migliore degli inferni possibili” e sono convinto avesse ragione. Non è un problema contestuale al mio attuale posto di lavoro. Fare la stessa cosa da un’altra parte non sposterebbe di un millimetro la questione, al massimo potrebbe anestetizzarmi per un po’. Nuovo ambiente, nuove persone, nuove dinamiche e magari perfino l’euforia per qualche spiccio in più nel bonifico di fine mese. Tutti buonissimi spunti per distrarsi un po’, ma anche novità a cui ci si abitua in fretta. L’alternativa sarebbe uscire dai binari, dare una spallata ai muri di questo cubicolo neanche troppo figurato e far saltare il banco. Un tentativo di fuga destinato a finire malissimo: come scappi dalla società? Mi piace pensare che in altre circostanze avrei fatto il tentativo, ma non sono sicuro di crederci davvero. Di certo ho creato un contesto familiare che non mi mette nelle condizioni di vedere il mio bluff. Usare i figli, la famiglia, come alibi è il terzo capo di imputazione, vostro onore, e il verdetto è lo stesso dei precedenti due.
Cosa cazzo c’entra il punk-rock?
Di queste cose che ho scritto è facilissimo non avere percezione. Tutto, intorno a noi, è funzionale all’accettazione della realtà in cui siamo imbottigliati, di questa normalità post-quarantenne. Sarebbe facile assuefarsi e accettare il proprio posto in fila, soprattutto quando non si è tra gli ultimi della fila stessa.
Io però non voglio che mi succeda.
Non ho del tutto capito se il mostro che vorrei sconfiggere sia troppo grande per me, o se forse mi faccia solo troppa paura, ma in ogni caso ho bisogno di continuare a vederlo, imponente e minaccioso, sopra di me. Qualcosa deve continuare a schiaffeggiarmi, forzarmi a non spostare lo sguardo da un quadro desolante, violento e decadente a cui ho comunque dato anche io qualche pennellata. Qualcosa che continui a farmi presente dove sta la riga tra giusto e sbagliato, a prescindere dal lato in cui mi trovi e da quanto bene possa sentirmici.
Questa mattina alle 8, chiuso dentro una macchina in coda verso un orizzonte grigio, quel qualcosa sono stati i Good Riddance.