Suonare, e poi fallire.
Il modo in cui giudichi la music cambia se hai mai avuto una band o no? Quanto a lungo si può fallire nella musica prima di mollare? Si può fare anche se non hai talento? E poi, il nuovo dei Foxing.
In un incubo che ho fatto di recente sono a un mio concerto, sono in un posto che, come spesso accade quando si sogna, fonde due luoghi che appartengono alla tua memoria più fondante in uno non esistente che ti pare di conoscere da prima di essere nato. È un mio concerto, ma io non sono preparato, non ricordo le canzoni, non sono nemmeno certo di essermi portato gli strumenti. C'è della gente, alcuni sono lì proprio per sentirci, altri no. Stiamo lì ore, e non iniziamo a suonare. Alla fine è passato talmente tanto tempo che è ora di suonare ma non c'è più nessuno, e io sono solo.
Da sveglio mi capita di guardare la chitarra appesa al muro, che mi restituisce uno sguardo offeso, e mi chiedo che senso abbia sforzarsi di avere una band, fare dei dischi e suonarli in giro. E questo già di per sé è uno scricchiolio in un passato in cui lo facevo senza chiedermi il perché, dato che il perché era in quello spazio confuso tra l'ovvio, il necessario e l'irrilevante. "Suono e basta, serve un perché?". È una domanda che ho avuto a lungo paura di pormi, convinto che farla entrare significasse guardare dentro a un abisso plumbeo, vertiginoso, come se in fondo a quella domanda, sepolta nel buio, ci fosse la mia sostanza stessa, e fosse una di quelle sostanze che si deteriorano non appena le afferri.
Ho detto "sforzarsi di avere una band", perché ho 37 anni, un bimbo di 5 mesi e una compagna che sacrifica tutto il resto per lui, un mutuo da pagare, dei genitori che invecchiano anche se fingo di no, e la mia strumentazione sembra pesare sempre di più sulla mia schiena. C'è stato un tempo in cui sognare era gratis. Vedersi a fare questo "di lavoro" era in fondo una scelta non più incosciente che iscriversi a scienze della comunicazione, e un po' di lavoro duro avrebbe pagato. Il tempo è una pressa che schiaccia le energie e abbassa le aspettative, e quindi dopo qualche anno avevo ridimensionato il mio desiderio, mi bastava andare in pari: girare il mondo senza rimetterci, potersi permettere di registrare un disco come dio comanda, dove ci sono quelli bravi davvero che fanno i dischi che ami. E d'altronde, più cresci e scavi nel profondo della musica e dei tuoi gusti, più il divario tra te e le persone che fanno i dischi che ami si assottiglia, e ascolti dischi composti da esseri umani come te, che quella cosa non la fanno di lavoro, perché ne hanno uno più vero e più noioso, hanno comprato una casa coi soldi guadagnati in ufficio e non sul palco, e pochi minuti prima di salire su quello della tua città videochiamano un figlio dall'altra parte dell'oceano perché ha appena imparato a reggersi su due piedi.
L'altro giorno parlavo con Manq dei Foxing, o meglio, lui cercava di capire perché io, da circa tre dischi a questa parte, venga travolto da ogni loro nuova uscita facendo davvero fatica a riprendermi. Ed è proprio così che mi sento, ogni disco dei Foxing mi colpisce e mi lascia un livido, e non è ciò che definirei un bell'incontro, perché non c'è quasi mai niente di piacevole. Sono dischi che mi spiazzano, mi fanno male, mi obbligano a rovistarli con le unghie mentre me le spezzo, in certi momenti sono dischi brutti e respingenti, insalvabili, e avvolgono come carta stagnola degli sprazzi di bellezza e talento che fanno davvero tremare. Ma questo modo in cui mi apro qui, parlandone, rimane solo un'impressione personale, un parere mio che non ha senso di esistere fuori dai miei gusti, il mio sentire e il mio vissuto, ed è un po' il problema di ogni tipo di critica. Manq ha ascoltato il loro nuovo disco, che si intitola pleonasticamente Foxing, uscito nemmeno un mese fa. È un disco autoprodotto, autoregistrato, automixato, automasterato, autopromosso, autopubblicato, persino autotitolato, è un disco di una passivoaggressività quasi grottesca nel modo in cui è stato annunciato. In sostanza, copio e incollo, Manq dice: "Ci ho provato davvero, 3 volte. Dopo la prima mi è rimasta solo una gran nostalgia dei Brand New. Dopo la seconda manco quello. Alla terza ero sconfitto".
Nel formulare la mia risposta, ho capito alcune cose di me, quelle cose che sai ma che finché non metti per iscritto con qualcuno non hanno una reale forma nello scaffale della tua consapevolezza, un po' come quando esci da una seduta di terapia conoscendoti un po' meglio. Gli ho detto che ho un debole per i gruppi che vanno scavati, e che nascondono il talento sotto all'ambizione, alla grandeur, a soluzioni pretenziose che ricercano la complessità, e che di base lo fanno un po' perché sono stronzi, ma anche perché sono insicuri. Per me i Brand New sono proprio l'opposto di questo, i Brand New sono solo stronzi perché sanno scrivere un pezzo e poi quindi un disco intero con pochissime idee ma di un'efficacia spaventosa che quasi non ha bisogno di arrangiamenti (sì, so che hai pensato a Jesus Christ), e proprio per questo non sono affatto insicuri.
Ho scoperto i Foxing con Nearer My God nel 2018, su cui scrissi una cosa che ancora faccio fatica ad accettare, ma è un disco oscuro e stratificato che non se n'è più andato dalla mia vita, anzi sembra aver piantato la tenda abbastanza in profondità. Dei primi due dischi, The Albatross, un debutto celebrato come un disco chiave del cosiddetto emo revival del decennio scorso, e Dealer, una lunga e dilatata opera post-rock, ho una conoscenza limitata, e ci vedo ancora una band che ha delle potenzialità inespresse, represse, di persone che ancora non sanno bene cosa vogliono, o comunque lo sanno molto meno del loro pubblico.
Quello che mi ha conquistato in Nearer My God, e poi ancora di più nel successivo Draw Down The Moon, uscito in piena pandemia nel 2021 e promosso con un gigantesco video-concerto e spettacolo teatrale in un palazzetto vuoto, una realtà a cui ci eravamo quasi abituati con la stessa velocità con cui ce la siamo dimenticata, è che mentre li sento e mentre li guardo i Foxing non riesco a non percepire la loro profonda insoddisfazione per ciò che sono, per ciò che fanno, per la sensazione di essere diversi da ciò che vorrebbero essere, lontani da dove vorrebbero stare, nonostante abbiano cercato di fare le cose come le fanno le persone che ammirano, idealizzano e hanno molto più successo di loro, molto più talento di loro.
Il talento, sì. Che problema enorme per chi vuole fare musica, o scrivere, o fare fotografie, o disegnare, o giocare a pallone. Che cosa orribile crescere con il desiderio bruciante e onnipervasivo di farsi strada in un mondo che ci pare l'unico in grado di farci stare bene, con il sospetto però di non avere il talento sufficiente per farlo. Che cos'è il talento? È vero che o ci nasci oppure non c'è nulla che tu possa farci? Lo puoi acquisire? Perdere? Migliorare o peggiorare? O ancora, il talento esiste come tale solo in chi te lo giudica o è una qualità oggettiva? Chiunque sa scrivere una canzone, ma solo chi ha talento sa scrivere una bella canzone?
Quindi se Manq nelle canzoni dei Foxing ci vede uno sforzo di trovare la via più complicata per unire i puntini, e lo chiama manierismo, io ci vedo lo stesso identico sforzo e lo chiamo paura di non essere accettati nel mondo di chi la musica la sa fare. A ben guardare, da due punti di osservazione diversi guardiamo la stessa cosa. Un disco è un cerchio per chi lo guarda frontalmente, una linea per chi lo osserva di lato: è così anche per il talento? Non lo so cosa sia il modo in cui si sviluppa Hall of Frozen Heads, una canzone sbattuta in fondo al disco dopo una marea di filler o pezzi di una difficoltà di ascolto che sembra una provocazione, "dai stronzo, vediamo se arrivi in fondo al disco nonostante questi due strati di merda da grattare via", vediamo se nel giudicare un disco lo ascolti davvero, vediamo se sai davvero cosa sia, cosa significhi. Non lo so cosa sia quella canzone dicevo, con il suo pianoforte dissonante, quella metrica della batteria che non capisci se sia sempre la stessa o siano due diverse tenute assieme con lo scotch, non lo so dove voglia andare davvero quella canzone e attorno a quale idea si sviluppi, l'unica cosa che so è che quando la ascolto mi si ferma il respiro. E vorrei prendere il telefono, chiamare Conor Murphy ed Eric Hudson e dir loro che per me ciò che stanno facendo conta. Che loro sono lontanissimi dall'essere il mio gruppo preferito, che non c'è un loro disco che mi piaccia tutto dall'inizio alla fine, che alcune canzoni di quelle che hanno scritto e registrato sono davvero brutte, ma che nonostante questo ho desiderato essere loro, ho fermato ciò che stavo facendo per ascoltare una loro canzone e non fare altro, ho agganciato quella canzone a un momento della mia vita che ricorderò per sempre. Perché io sono come loro, anche io ho il terrore di non essere capace di scrivere una bella canzone, di non averne mai scritta una, di non avere talento per la cosa che faccio da vent'anni e per la quale ho rinunciato a tante cose, e quella paura la nascondo cercando arrangiamenti complessi, soluzioni oblique, tracklist che richiedono attenzione, un desiderio che un disco sia percepito come qualcosa da dire, e non come un sottofondo buono o non abbastanza buono.
A un certo punto, durante la conversazione con Manq, mi sono chiesto se forse guardiamo la cosa da due punti opposti perché io suono, ho una band, ho registrato dei dischi e li ho visti fallire, e lui invece no. Me lo chiedo da molto tempo se avere una band, se stare dalla parte di chi la musica la fa cambi anche il modo in cui giudichi la musica altrui, se presti attenzione anche ad altri aspetti che se non hai mai provato a suonare non puoi sapere, ma mi sono risposto di no. Voglio dire, credo che una canzone ti piaccia o non ti piaccia a prescindere dal fatto che tu sappia o meno cosa ha patito per farla chi l'ha fatta. Credo che un passaggio di una canzone ti faccia stare bene sia che tu ti chieda come è stato fatto, sia che questo pensiero non ti venga neppure in mente.
I Foxing hanno presentato questo disco con un video tra l'esilarante e il magone. È il live di una conferenza stampa a Saint Louis, in una sala comunale. Ci sono loro sui tavoli, con tanto di cartellino e microfono, e modera il loro manager, chitarrista degli Early November. In platea, delle sedie riservate a giornalisti di varie testate musicali: su quelle sedie non c'è nessuno. Nel video, si ascolta il primo singolo, Greyhound, un brano di 8:05 pieno di passaggi non esattamente radiofonici. È un pezzo orecchiabile, melodico, ma lungo. Non è il cavallo su cui punti per lanciare un disco, e quel disco un cavallo su puntare probabilmente neppure ce l'ha. Per 8 minuti la telecamera indugia sui loro volti imbarazzati, impassibili, li inquadra mentre si versano dell'acqua, mentre si sussurrano qualcosa tappando il loro microfono. La platea rimane nel suo vuoto. Al termine dell'ascolto, il moderatore annuncia l'inizio della sessione Q&A. Sono dieci minuti di silenzio completo in cui nessuno fa domande, perché nessuno è presente, e quindi nessuno risponde. Poi il video finisce. Fa sanguinare il cuore.
Sembra una parodia, una caricatura feroce. Lo è, ma era anche un evento organizzato per davvero, a cui i Foxing hanno davvero invitato quei giornalisti di quelle testate, e a cui quindi davvero non si è presentato nessuno. Lo svela anche un'intervista di Stereogum (leggetela, è importante per capire da dove venga questo pezzo che state leggendo) dove i Foxing raccontano il senso dell'operazione. Mentre lo fanno è difficile capire se sia un atto di spietata autoironia che parla a un'intera industria, oppure se dietro ci sia anche una genuina speranza disattesa, di qualcuno che sognava davvero che la stampa di tutto il mondo pendesse dalle loro labbra, e attendesse il loro disco. Perché, perché sì. Perché quando pubblichi un disco per te è davvero la cosa più importante al mondo. Perché, e quello sì è vero, la differenza tra chi ha fatto un disco nella propria vita e chi non l'ha mai fatto è che il secondo non potrà mai capire cosa significhi rendersi conto che del tuo disco a nessuno importa davvero, o comunque a nessuno importa più di quanto importi a te. Non potrà capire cosa significhi essere risucchiato per mesi, anni della tua vita in un progetto che si mangia tutti i tuoi pensieri mentre lavori e mentre vivi il tuo tempo libero, che ti prosciuga finanze che non pensavi neppure di avere da parte, e dal quale esci con la testa talmente coinvolta, assuefatta e impregnata che il tuo mondo è quel disco, e dai per scontato che anche il mondo lì fuori attenda il tuo disco, lo possa capire al volo anche se ha avuto ventiquattro mesi in meno di te per digerirlo. Non potrà capire che vuol dire che se il master te lo mandano alle 4 del mattino, tu alle 4:02 l'hai già scaricato e alle 4:03 inizi ad ascoltarlo, mentre poi se lo mandi a qualcuno al massimo ti dirà "dopo ascolto", e quel dopo a volte è qualche settimana, a volte è un mai. È difficile trovarsi nella situazione di metterci anni a trovare la forma giusta per dire qualcosa che hai bisogno di dire e renderti conto che quando è il momento non è detto che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarti.
Sono andato fino a Berlino per sentire i Foxing dopo il covid, in un'onda emotiva in cui appena erano ripresi i concerti ho deciso che avrei visto tutti i gruppi che volevo vedere prima che fosse troppo tardi. Ci sono andato, ma loro a Berlino non ci sono venuti. Hanno cancellato il tour poco prima, senza dire mai perché. Di solito quando non lo si dice è perché il tour non vende abbastanza, e quindi diventa un gioco in perdita. Draw Down The Moon è stato un buco nell'acqua, il disco che li doveva consacrare e che invece li ha affossati, fino a costringerli a ripartire da zero, da soli. È un disco che io invece adoro, che non è diverso da Nearer my God e da questo Foxing nell'essere in parte respingente e in parte irresistibile. Bialystok, Cold Blooded, Beacons, Speak with the dead sono pezzi che ogni volta che mi tornano tra gli ascolti mi trascinano in luoghi in cui non voglio stare ma da cui esco sempre trasformato. È un disco che, come tutti i dischi dei Foxing, va preso a piccole dosi, scoperto piano piano, che richiede pazienza e impegno, e che di impegno non ne ha trovato. Draw Down the Moon, per come è andato, avrebbe ucciso una band che fa musica perché è un modo come un altro per campare, e non perché ne ha bisogno.
Nella carriera dei Foxing c'è tanta delusione, che parla una lingua che mi è familiare, mi risveglia dei ricordi dolorosi, in una carriera da musicista che ancora seguo e che per ogni momento straordinario che mi ha regalato ha compensato con almeno dieci delusioni, sensazioni di essere di troppo, di fare cose che nessuno mi sta chiedendo, di sentirmi fuori posto, troppo vecchio, troppo coinvolto.
Troppo poco talentuoso.
Viaggi lunghi per arrivare in locali a volte intimorenti, a volte improvvisati, con fonici che non ti conoscono e che non hanno voglia di conoscerti, davanti a pubblici che sono lì per altri motivi, e se ti va bene li catturi e ti fanno dei complimenti, se ti va male diventi ciò che sta impendendo loro di far capire al barista se hanno chiesto una o due IPA. Tempo sottratto agli affetti. Notti in case di persone gentili, o in alberghi che potevi permetterti, a non dormire perché i furgoni parcheggiati in strada li aprono e li svuotano. E lì, al tuo banchetto, un disco in cui hai messo tutto ciò che potevi, di cui un giorno vai fiero e il giorno dopo ti sembra un patetico tentativo di travestirti da qualcuno che non sei, e non sarai mai. Quindi ha cominciato a fare capolino quella domanda, quel "perché lo sto facendo", e anche necessariamente un "fino a quando lo farai". Qual è il limite accettabile di una passione che nel suo essere forte ti fa del male? Fino a che punto il desiderio di dire qualcosa può accettare che non ci sia nessuno diposto a sentirla?
È un abisso che ha delle risposte rassicuranti, quelle del sistema di oggi: il genere che non va, i concerti che costano troppo, le case discografiche che non investono più, il pubblico che è sempre più distratto, lo streaming che ha ucciso gli album. Nulla di tutto questo è vero, o forse lo è ma è anche non pertinente. Escono ancora tantissimi album, molti ambiziosi, molti lontani dall'easy listening, molti lunghi in modo anacronistico, molti che richiedono un'attenzione dell'ascoltatore che non tutti gli ascoltatori si possono permettere. Esiste un sistema che vuole far passare la musica per entertainment, e nell'entertainment è chi viene intrattenuto a dettare legge, sulle durate, sugli stilemi. È lì che vanno gli algoritmi. Ma sono scuse. Questo sistema non ha ancora vinto, e dove ha vinto si è scoperto più vulnerabile e contraddetto di quanto avrebbe creduto. È comodo pensare che se il tuo disco non va è perché sta ai margini del sistema, è meno facile accettare che a volte il tuo disco non va perché non è abbastanza buono, anche se per te, per almeno un minuto della tua vita, è sembrato la cosa più bella che potessi fare, per te e per gli altri.
Se quindi devo spiegare perché i Foxing sono così importanti per me, spiego che nel modo in cui scrivono e suonano riconosco un loro tremendo sospetto di avere fallito. Perché io, di avere fallito, non ho più solo un sospetto. Ho la stessa band da più di 15 anni, abbiamo scritto e registrato 2 ep e 4 dischi, abbiamo un nome che non ho mai voluto cambiare perché speravo che contasse qualcosa per qualcuno che ci seguiva dall'inizio, senza considerare l'eventualità che questo qualcuno in realtà non esista. E quindi abbiamo tenuto un nome di cui mi vergogno, che odio, che rappresenta il me che aveva 15 anni, ma anche il me che non ha il coraggio di tirare una riga e rifare le cose daccapo. Nella traccia che chiude il disco, Cry Baby, una ballad voce e piano, verso la fine si sente una registrazione di Eric Hudson, risalente a quando aveva 16 anni, che dice "Non credo che la canzone sia buona quanto potrebbe essere, ma sta venendo fuori".
Avere una band è anche questo, è aver scritto materiale che detesti più di ogni altra cosa, è vedere una foto di te che ti fa cringiare almeno tanto quanto ti rendeva tronfio nell'istante in cui è stata scattata. È aver scritto testi con i quali oggi non saresti mai d'accordo. È soprattutto aver scritto dei dischi che vorresti dimenticare, veder sparire dalla faccia della terra, come se non fossero mai esistiti, e sperare che non riemergano mai come un delitto compiuto anni fa di cui nessuno ha mai scoperto nulla. Il rovescio della bellezza di fermare un istante della tua storia in un disco, è che poi quell'istante rischia di rimanere a ricordarti chi non vuoi più essere.
Foxing è un disco arrabbiato, isterico, orgoglioso, in alcuni momenti molto brutto e in altri toglie il fiato da quanto è bello, sentito, pensato. Mi trovo ad ascoltare certi passaggi in loop, a scomporli, a pensare come cazzo avete fatto a farla suonare così questa parte, adesso questa cosa provo a rifarla e ve la rubo per la mia band.
Già, la mia band.
Foxing fa parte di quei pochi dischi che mi riportano a forza in una stanza in cui sono solo con la mia band, i miei sogni infranti, le delusioni e le umiliazioni che mi è costato averne una, e quel cartellone gigante sul muro con la domanda "Ma scusa, chi te lo fa fare?", e cioè perché lo fai? Il perché, oggi come vent'anni fa non lo so. Probabilmente, se mi volessi bene, se per me fare musica dipendesse da quanta gente la ascolta, da quante date riesco a fare e da quanti gruppi ci sono prima e dopo del mio in scaletta, da quanti dischi vendo, da quanto riesco a riempire una sala stampa o un locale, dovrei smettere. Avrei dovuto smettere prima.
Poi però esce un disco come Foxing, mi parla di chi sono, mi mette una strana idea in testa di rifarlo con strumenti miei, mi ricorda che provare a rifare una cosa che mi piace è il mio modo di tentare di comprenderla. Mi mostra con le buone e con le cattive che fare musica non è fare impresa, non deve andare in attivo, non deve generare profitto. Fare musica ha a che fare con il cercare il proprio talento, a costo di scoprire magari dopo quattro dischi o di non averlo, o di averlo cercato nel posto sbagliato. Quanto a me, non ho una risposta sul perché sto ancora sacrificando parte della mia vita per fare qualcosa che mi fa stare bene ma che mi fa anche stare molto male, né ho idea di quando sarà ora di gettare la spugna e far pace con l'idea che solo perché una cosa mi mancherà non significa che debba per forza mantenerla in vita. E quando smetterò cambierà il modo in cui ascolto i dischi degli altri? Amerò ancora dischi come Foxing? Avrà ancora senso ascoltare musica? La musica si fa per colmare posti vuoti. Siano essi sale stampa, locali o più banalmente vite.
Gran bel pezzo, grazie. La riflessione sul perché andare avanti nel fare le cose nonostante la mancanza assoluta di certezze e nebbia fitta sulle aspettative, mi ha ricordato questo pezzo di Eugene Robinson: https://eugenesrobinson.substack.com/p/oxbow-the-grammy-gank-the-horror , per quanto la sua band abbia raggiunto sicuramente dei risultati degni di nota.
In particolare quando scrive:
"[...] my understanding of what climbing in a van is all about and what it’s about, insofar as I’ve been able to tell, from 1981 to 2023, is maintaining a certain poise and balance worthy of any shaman to get through 40 plus years of staring at roads that ribbon out in front of you to fates and fortunes unknown. All of which you pay for, and hope you get paid back for.
If you’re still doing this and playing stadiums or at the very least large festivals, then it makes sense. If you’re doing this and you’re playing clubs, it becomes like the Jesus Prayer, something you say, or do, over and over again, hoping for some sort of version of enlightenment."