Vegetale
Metti una canzone come sveglia. Se non finirai per odiarla, allora è una canzone bellissima.
Alcuni oggetti cominciano ad acquistare un senso e una funzione solo quando abbandoni una fase della tua vita per entrare in un’altra, tipo la sveglia. Il concetto stesso di puntare la sveglia non ha avuto significato per me fino a quando non sono stato costretto a farlo.
Per andare a scuola mi svegliava mia madre. Io sapevo solo che dovevo prendere il bus delle 7:15 per arrivare in largo anticipo, o delle 7:35 per arrivare quasi in ritardo, il tutto perché tra le due corse si formava una coda endemica sempreverde che rendeva impossibile una via di mezzo.
La domenica mattina mi svegliavo tardi, e da camera dei miei usciva un odore talmente intenso di caffè da moka che era quasi un nastro visibile, e in sottofondo una voce, bassissima e compassata che parlava. Mio padre puntava la radiosveglia su Radio Tre, che lo svegliava piano piano, con chiacchiere perlopiù artistiche o politiche, e ai miei occhi adolescenti sembrava un bel modo di essere grande, ascoltare un mattoncino nero con l’ora digitale in rosso, immobile a letto, con il vassoio del caffè e il sole che filtrava dalla stanza.
Ma al tempo esistevano solo queste due alternative: la mamma che mi chiamava dal lunedì al sabato, giusto in tempo per l’autobus, oppure la domenica mattina in cui a chiamarmi era il mio corpo stesso, a ore sempre diverse. Svegliarmi non era una decisione parte di una strategia, era una cosa che accadeva e che lasciavo accadere.
Poi è successo che la scuola è finita, anche se per me poteva già finire mesi prima di quando è successo, ma fuggendoci mi ci sono impigliato strappandomi un po’ la manica e non l’ho ancora ricucita. All’università le cose sono andate meglio, mi è sembrato davvero di avere in mano le chiavi delle mie giornate, e con una di queste potevo puntare la sveglia, o scegliere di non puntarla affatto.
Mi sono fatto regalare una radiosveglia perché volevo rivivere le domeniche di mio padre in forma contratta, ma alla prima mattina ho scoperto che non potevo regolare il volume di quando suonava: era sempre al massimo, mi svegliava in modo brutale e in modo altrettanto brutale lasciavo cadere il mio braccio sullo snooze come uno schiacciamosche, vanificando tutto. Forse il rapporto tennistico tra me e le sveglie è iniziato così.
È durata qualche l’anno l’illusione di poter decidere quando svegliarmi, e la conseguente illusione che le pagine le voltassi io. Ben presto mi sono scoperto resistente ad abituarmi a un ritmo deciso da me e non dalla mia stanchezza, e la mattina è diventata un problema, finché negli ultimi anni dell’università ho deciso direttamente di eliminarla, dormendo fino a ora di pranzo. La radiosveglia, in tutto questo tempo, ha continuato a suonare, svegliandomi a gomitate, e non una sola volta mi ha fatto scivolare lentamente dal sonno alla veglia come immaginavo facesse con mio padre.
Svegliarmi è diventata una scienza, che ho iniziato a studiare frustrandomi nei risultati, come una carriera persa dietro a un’ossessione senza mai raggiungere il risultato. Per un breve periodo ho pensato di averla trovata, impostando la sveglia del mio smartphone per suonare Holy Ghost di Laura Stevenson & The Cans.
Holy Ghost è una canzone dolce e sussurrata, disegnata su una chitarra che annaspa mentre la voce nasale e infantile di Laura Stevenson dipinge una melodia delicata. Dopo un gioco con gli archi, la chitarra si fa elettrica e Laura ripete make it alright, make it alright in modo ossessivo. Il mio obiettivo era alzarmi prima che entrasse la chitarra elettrica, e per buona parte del mio tempo ci sono riuscito, fino a quando non mi si è rotto il cellulare, con dentro la canzone, e l’ho cambiato.
Quando ho pensato di rimettere Laura nel telefono, nel frattempo la situazione era precipitata, ed ero passato a puntare due sveglie, posticipandole ognuna di otto minuti alla volta, finendo per creare un effetto tipo i cani si abbaiano l’un l’altro di quartiere in quartiere nel mio sonno mattutino. La prima sveglia è Masollan, dei Balmorhea. La seconda sveglia è Pilgrim, dei Balmorhea. Sono entrambe canzoni di un disco che si chiama Stranger.
La prima è una canzone che, da quando vivo da solo e invito a casa a pranzo i miei per Pasqua, non manca mai; da quando senti l’entrata vedi proprio le piante germogliare, è la stagione che riparte.
La seconda emerge da un tremore di pianoforte, in un lungo preambolo che porta a una melodia solenne.
Metti una canzone come sveglia. Se non finirai per odiarla, allora è una canzone bellissima. E due in un solo disco sono quasi un miracolo.
Negli ultimi due anni penso sia iniziata una nuova fase dei miei risvegli. La mattina è ormai il mio momento preferito della giornata, ma svegliarmi non ha sempre avuto il significato di qualcosa che accade, o di qualcosa che faccio accadere: in alcune giornate mi sono augurato di non svegliarmi, di rimanere in un semplice stato di torpore e incoscienza che mi permettesse di non affrontare nulla, né un male di vivere né uno spavento. Poi però iniziava l’arpeggio di Masollan, e tornava tutto reale, come se quella chitarra dipanasse il buio ripassandone con la matita grossa le linee tratteggiate e colorandoci dentro.
Stranger è un disco che ha questo potere di far muovere le cose, disegnarle con una specie di armonia propria del mondo vegetale, e ho sempre voluto avere questa capacità delle piante di avere fiducia nel sapersi risvegliare.